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percezione della realtà

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EXHIBITION ’79 (1979) di Jean-François Davy

Il corpo e la memoria

Quattro anni dopo Exhibition, il regista Jean-François Davy ritorna sulle tracce di Claudine Beccarie, la quale in quel film si era raccontata in un modo che, probabilmente, neanche lei aveva previsto. L’attrice per Davy si era rivelata come un canale interessante per uno studio più mirato dell’industria del sesso in rapida crescita. Affascinato dalla sua “musa” (dopo le riprese del film del 1975 i due ebbero anche una breve relazione) Davy aveva programmato di tornare da Claudine Beccarie per vedere quello che stava facendo, ogni quattro anni. Ecco quindi nascere Exhibition’ 79 dove, abilmente assistito dal direttore della fotografia Roger Fellous, il regista racconta la trasformazione contemporanea della donna e dell’industria pornografica. Il successivo episodio avrebbe dovuto essere girato nel 1983 ma l’attrice fece perdere le sue tracce. In Exhibition ‘79 troviamo una Beccarie disillusa e malinconica in netta contrapposizione esistenziale con la donna volitiva e spigliata di Exhibition. Niente sesso in questo film, incentrato non sul corpo, bensì sulla personalità, sull’anima di Claudine Beccarie che, all’epoca ha deciso di smettere di recitare davanti alle cineprese. Il regista, che qui rinuncia ad ogni forma di voyeurismo per mettere in scena, a posteriori, la memoria di un’epoca di speranze e libertà andate perdute oscilla, tra il tratteggiare il recente passato dell’industria hard – utilizzando segmenti del film precedente con l’audio distorto e la fotografia slavata e monocromatica – e il presente di un mercato, ormai deprivato di qualsivoglia contenuto e forma, fatto di prodotti amatoriali, performers improvvisati, e minacciato dall’imminente espansione del video.

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Abbandonata la carriera di attrice e dopo un secondo divorzio dal collega performer Didier Faya e un aborto del figlio cercato e voluto (il cui desiderio era già espresso nel primo film), Claudine si è ritirata in un tranquillo paese di campagna per allevare conigli e galline, con l’aiuto un amica-fidanzata di nome Nova.

L’ARGENTO CHE URLA – L’UCCELLO DALLE PIUME DI CRISTALLO (1970) di Dario Argento

Un libro degli anni’50 è fonte di ispirazione per un ‘opera dalle affinità elettive con il teatro, la scrittura, le teorie del cinema e Michelangelo Antonioni: tra Incomunicabilità e memoria

 

Il film è una rappresentazione per immagini della paura delle relazioni insite in ogni essere umano e al contempo una riproduzione del processo di scrittura.

 

Argento definisce il suo cinema come “storie oniriche e tuttavia profondamente latine”, frutto del magma emotivo e irrazionale che da sempre abita in lui, abilmente mescolato con le suggestioni di tanto cinema visto, soprattutto quello di Fritz Lang. Il suo cinema non può che essere ontologicamente imperfetto e irrisolto, perché vive di suggestioni e non di raziocinio; i suoi film sono incubi tradotti in immagini in cui dominano la componenti fantasmagoriche e esoteriche ma nel quale si mescolano, sotterranee (eppure vivide e pulsanti) le ansie, le paure e le inquietudini della contemporaneità. La sua ambizione, come dichiara lui stesso, è quella di “prendere lo spettatore per mano, stringendo o allentando la presa”, per guidarlo all’interno dell’alterità di un mondo inesistente in cui dominano il caos, l’inafferrabile, l’oscurità e il ridicolo. Gli esiti del suo cinema discontinuo, confuso e diseguale sono opere interamente cucite addosso all’emotività dello spettatore senza mai prendere in considerazione l’ordine, il rigore o la linearità: incubi ad occhi aperti dove i personaggi urlano in modo sguaiato e cartoonesco, sanguinano ed espellono litri di emoglobina con cui imbrattano lo schermo e si agitano in narrazioni istintuali e viscerali che non contemplano né il realismo né la verosimiglianza.

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Dario Argento, quindi, rappresenta veramente un caso curioso per il nostro cinema: al di là del suo essere riconosciuto, retoricamente e inutilmente, come il più importante esponente del cinema di genere italiano (un vero e proprio luogo comune), egli è tanto bistrattato dalla critica (da sempre), quanto osannato da una folta schiera di appassionati, fan, e studiosi, visto che attorno al regista romano si sviluppa una delle più nutrite bibliografie dedicate all’opera di un regista italiano. Date le premesse, quindi, un regista di cui forse si è già detto tutto (troppo) e il contrario di tutto. Un cineasta la cui opera è stata sviscerata in ogni particolare e la cui produzione è stata accuratamente scandagliata nei minimi dettagli per portare alla luce, aneddoti, curiosità, tagli, revisioni, “falsi” soggetti (il caso Chipsiomega sul retro copertina del disco Cinevox del 1980 di Profondo Rosso), e poi ancora, contraddizioni, discendenze espressioniste, cromatismi baviani, ecc. Nel caso dell’opera di esordio è evidentemente già stato approfondito il rapporto tra la sceneggiatura del film e il romanzo “La statua che urla” di Fredric Brown del 1953 e sono già state messe in luce le contiguità e le discrepanze tra le due opere. Anche il rapporto tra il film e il cinema di Antonioni è già stato sfiorato soprattutto nell’analisi del “dettaglio rivelatore” e dell’ovvio rimando a Blow-Up (1968).

L’AMORE POVERO [I PIACERI PROIBITI- 1963] di Raffaele Andreassi

In ITALIA: ULTIMO ATTO – L’ALTRO CINEMA ITALIANO. Vol 1 – Da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri

 

Raffaele Andreassi con L’amore povero evita, indulgenza, retorica e compiacimento – ma anche ipocrisia e moralismo – restituendo allo spettatore tutto lo squallore e l’umanità di un microcosmo – paradigma che abbraccia tutte le classi sociali e che non fa distinzione né di censo né di ruolo. Nel film, interpretato ma sarebbe meglio dire vissuto da “professioniste,” si avverte nel loro agire, nelle loro espressioni e nel loro relazionarsi al “cliente” tutta la tensione recitativa di un’intensa sensibilità nel ricoprire il ruolo di immagine (cioè di donna ideale e temporanea). Colpisce l’affidarsi del film ad immagini che altro non sono che fatti raccontati attraverso la frammentarietà del reale (con grande anticipo sui tempi Andreassi è consapevole che la realtà non è riproducibile nella sua totalità), in cui le parole scompaiono, i dialoghi sono laconici e frettolosi, mentre invece le immagini, puntando sulla verosimiglianza, restituiscono tutta l’amarezza, il dolore (e il ridicolo)  delle situazioni mostrate espellendo, ontologicamente, qualsivoglia aspetto erotico e/o pruriginoso.