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VELLUTO NERO (1976) di Brunello Rondi – Quarta parte

L’isola dei morti: un immagine onirica che deve produrre un tale silenzio che il solo bussare alla porta dovrebbe fare paura

La sequenza successiva rimanda all’altra componente del film – quella proveniente da Laure– il film diretto da Anonimo (come scritto sui titoli di testa, in realtà girato da Roberto D’Ettore Piazzoli, dopo l’abbandono di Emanuelle Arsan) di cui in Velluto neroritroviamo l’eroina: Laure/Annie Belle. In compagnia di Emanuelle, le due donne assaporano un attimo di felicità immergendosi nella realtà del suk, assaporandone gli aromi dell’incenso di zenzero, mentre alle immagini di vita quotidiana si sovrappone una voice-offche ne celebra la bellezza e la mancanza; poi, le due donne terminano la loro breve fuga visitando un bordello in cui, proima sono spettatrici di un amplesso saffico e poi si abbandonano loro stesse all’amore lesbico. Brunello Rondi, restituisce a questa scena un tocco di poetico lirismo (altrimenti sconosciuto al resto del film), consacrandola non solo a momento liberatorio ma anche a rappresentazione metaforica dell’amore tra popoli: la donna bianca e quella nera si stringono in un coito struggente che è sinonimo sia della libertà sessuale che di una possibile globalizzazione dei corpi. Per quanto improbabile e velleitario, il tentativo rondiano, non risulta mai ridicolo e riesce a mantenere un’ambiguità di fondo che non lascia indifferenti. Il proseguire del film è concentrato sullo svelamento, da parte di Laure, dell’ipocrisia e della prosopopea del gruppo di borghesi: inadatti a vivere la realtà e pertanto immersi nel delirio distruttivo del sogno.

VELLUTO NERO (1976) di Brunello Rondi – Terza parte

Il sogno, l’estremo e gli occhi dello spettatore: il colonialismo dell’immagine

Carlo ed Emanuelle, il fotografo e la modella sono sintesi metaforica della società delle immagini, spinta sempre più all’infrangimento delle barriere dell’etica e del buongusto. Se Emanuelle, si presenta gettando i propri gioielli ai bambini che la rincorrono nel deserto – Carlo afferma, sprezzante: “Ha il complesso del denaro. Se non la sorvegliassi farebbe a pezzi il suo vestito per regalarlo a tutti questi pezzenti”– il fotografo si spaccia per teorico dell’immagine e di fronte ad una montagna di cadaveri diventati tetro scenario delle sue fotografie di moda – prima afferma che: “Il disgusto è educativo; poi, di fronte a Laure, che ne svela la nullità, dichiara tutta la sua impotenza, se scisso dal mezzo meccanico: “Per me la mia macchina è il mio occhio, il mio naso e il mio fallo”. Nel deserto, Carlo, si sente invincibile e “artista” di fronte alle popolazioni locali, e costruisce una macabra messa in scena come sfondo per le immagini di Emanuelle, fotografandola di fianco alla carogna di un animale, in mezzo a un mucchio di cadaveri massacrati dai nomadi e su una montagna di letame fumante.

1968… MODI PER MORIRE

In Italia: ultimo atto. L’altro cinema italiano. Vol 1 – Da Alessandro Blasetti a Massimo Pirri

 

Quello del 1968 è un paradosso straordinario: l’anno che vuole cambiare il mondo, nel cinema italiano diventa l’anno in cui la rivoluzione è negata. I film del biennio 1968-1969 – finora poco storicizzati e affrontati in ordine sparso – visti nel loro complesso disegnano oscuri presagi sul futuro a medio e lungo termine e sono attraversati da un pessimismo, appiccicoso e intransigente, nei confronti di tutto ciò che è cambiamento. La cifra contenutistica è quella della disillusione, già sublimata prima ancora che l’illusione stessa si compia. E’ come se il cinema, tra i medium, fosse l’unico a fare i conti con l’immaturità endemica e le frustrazioni dell’italiano medio, e a mettere in scena la nemesi stessa del “sogno”, anticipando persino i tempi dell’attesa e sospendendo ogni illusione in uno stato di sospensione come è quello della “permanenza del possibile”.