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I PROSSENETI (1976) di Brunello Rondi

Un funerale collettivo, in cui tutti sono colpevoli…e nessuno è colpevole.

Prosseneta: Voce colta di origine greca; prosseneta significava in origine “aiutatore degli ospiti”, consigliere, guida, intermediario (nell’antica Grecia il pròsseno era il cittadino incaricato della protezione degli stranieri), mentre oggi sta per ruffiano e mezzano. I prosseneti, uscito nelle sale il 28 Aprile 1976 visibile oggi, solo grazie al passaggio in TV della durata di 90′ 32” (ma registrato in visto censura come 105′), è il decimo film da regista di Brunello Rondi: “Velleitario tentativo di denunciare la mercificazione di cui la donna è oggetto nella nostra società” (Centro Cattolico Cinematografico). Così il CCC liquidava questo film (centrando comunque appieno le intenzioni del regista) non tenendo in considerazione però che la denuncia della mercificazione del corpo femminile è solo una parte di quest’opera costruita narrativamente e figurativamente come una sorta di kemmerspiel esistenziale.

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L’unità di luogo, cioè la villa e lo spazio a bordo piscina in cui si svolgono gran parte delle azioni non potrebbero esistere se non attraverso l’astrazione di un non-luogo immaginario, in cui agiscono i vari personaggi. Il non-luogo prende forma attraverso le stanze della casa-teatro, raccontate come spazi scenici in cui ogni cliente replica (con tanto di maschere e scenografie) stati d’animo turbati e passaggi vitali colmi di rimpianto e mai riconciliati: in tutto ciò la donna assolve all’unico ruolo possibile (secondo la società dei consumi), quello di un essere taumaturgo in grado – con la sua sola presenza – di guarire, o meglio, temporaneamente alleviare le sofferenze di uomini psicolabili e insicuri. È la stessa contessa Gilda a dichiarare le intenzioni dell’agire suo e di suo marito: “Le nostre camere non devono più sembrare camere normali ma… teatri, quadri di illusione…”, così come più tardi sarà un cliente che, rivolto alla prostituta Odile, dirà: “E il mio teatrino…tu devi soltanto obbedire e basta”.

BUG di WILLIAM FRIEDKIN (2006)

Lo sguardo onnipotente dell’incertezza

 

Presentato a Cannes ’59, nella sezione Quinzaine des Réalisateurs, Bug di William Friedkin, è un lungometraggio livido e per nulla conciliatorio, che innesta un vortice delirante di paranoia patologica che trascina con sé persone, ambienti e psiche, impedendo di rintracciare coordinate chiare e percepibili, e facendo, ancora una volta, dell’ambiguità, l’unica chiave di lettura possibile. Un film che si confronta con l’orrore e la deviazione che possono insinuarsi in menti umane isolate dal mondo (nel film non compare alcun segno della tecnologia corrente; niente cellulari, solo un vecchio telefono di bachelite che squilla in continuazione) e costrette ad una condizione di vita disagiata. Bug è interamente circoscritto intorno all’unità di luogo, la stanza del Rustic Motel in Oklahoma; scelta che permette al regista di lasciare intatto fino alla fine l’interrogativo se le visioni (?) dei protagonisti siano vere o il risultato di manie di persecuzione, ma anche di innestare un discorso “politico” più ampio, riempiendo i dialoghi di riferimenti alla storia americana (recente e non), compreso il fuoco amico del “terrorista” che viene dall’interno (come gli insetti). Non appare casuale la citazione di Tim Mc Veigh, nel monologo di Agnes che anticipa la chiusura del film e che riassume in un delirio scoordinato e psicotico il percorso che hanno condotto lei e Peter fino a quel punto. Timothy James McVeigh è infatti, l’autore dell’ attentato di Oklahoma City del 19 aprile 1995, in cui rimasero uccise 168 persone, in quello che è stato il più sanguinoso atto terroristico perpetrato nel territorio degli Stati Uniti fino all’11 settembre 2001. Il nemico è dentro di noi (visibile o invisibile non ha importanza), questo sembra dirci William Friedkin con Bug, che non a caso reinterpreta e aggiorna attraverso la piece teatrale di Tracy Letts (che scrive anche la sceneggiatura del film), l’episodio da lui diretto per la serie “Ai confini della realtà”, nel 1983, sostituendo le sperimentazioni chimiche del diserbante Orange ed il gas psichedelico BZ, utilizzati dall’esercito durante la guerra del Vietnam con presunte sperimentazioni condotte sui soldati statunitensi durante la Prima Guerra del golfo.

WILLIAM FRIEDKIN’S “RAMPAGE” (ASSASINO SENZA COLPA?) – Parte Seconda

180 secondi per morire: La vita di un essere umano innocente vale di più di quella di un pluriomicida?

Rampage è un film che letteralmente prende le distanze dallo spettatore. Quella di Friedkin è una messa in scena glaciale, anti-empatica. Lo sguardo del regista è oggettivo al fine di proporre allo spettatore un film in cui non è possibile nessun coinvolgimento emotivo ma solo una visione distaccata (e pertanto critica) degli eventi mostrati. In Rampage non c’è nessun intento introspettivo né tanto meno esornativo, ciò che conta è il non-luogo dello spazio persistente tra due opposti. William Friedkin impernia la costruzione filmica e narrativa su un tema ben preciso quello della linea di confine: una linea di demarcazione che separa il Bene dal Male, la giustizia dall’ingiustizia, la vita dalla morte, i dubbi dalle certezze, ma che trova la sua ricomposizione nella ritualità degli eventi per poi distaccarsi nuovamente e definitivamente nel racconto della scissione del comportamento umano diviso tra istinto e ragione, animalità e umanità. A tal proposito l’inizio appare programmatico, la lunga panoramica aerea che scende fino ad inquadrare Charles Reece in cammino sulla strada, pone lo spettatore davanti alla visione di una linea prima “invisibile”, e poi sempre più visibile fino all’identificazione con la strada, immersa e “nascosta” tra la continuità dei campi coltivati. La separazione, come indice di contrapposizione, ma anche come luogo fisico e non-luogo mentale, in cui il film si incunea nelle sue contraddizioni e ambiguità con l’intento dichiarato (sin dai primi fotogrammi) di non offrire allo spettatore nessun appiglio e di non concedere nessuna risposta.

WILLIAM FRIEDKIN’S “RAMPAGE” (ASSASSINO SENZA COLPA? – 1987) – Parte Prima

La ritualità dell’omicidio e l’anatomia di un serial-killer

Rampage è il film dimenticato di William Friedkin. La scarsa circolazione e le vicende produttive legate alla sua realizzazione, hanno contribuito sia a diminuirne l’impatto critico che a renderlo un oggetto misconosciuto e tutt’oggi (quasi) invisibile. Nel 1986, il regista di Chicago sta lavorando alla stesura di un copione per un film per la televisione via cavo quando, si imbatte in un romanzo che suscita il suo improvviso interesse. William P. Wood, autore del libro in questione è stato procuratore distrettuale nella città di Sacramento, dove si è specializzato nella risoluzione di casi di omicidio plurimo. Nel suo libro, l’autore, traccia sotto forma di resoconto cronachistico (seppur con ampie immissioni di fiction) le vicende di un serial killer che agisce nella cittadina Californiana sul finire degli anni ’70.

A FOOL THERE WAS (1915) di Frank Powell

Vamp, Femme Fatale …Vampira: la prima della storia del cinema

A Fool There Was (id., 1915) di Frank Powell, è forse (molti film della Silent Era sono andati perduti) il primo film che affronta la figura del vampiro. Lo fa da un punto di vista “realistico”, quello della seduzione e della dipendenza che l’essere perverso instilla nelle sue vittime “inconsapevoli”. La dinamiche è duplice, da un lato quella della caccia, una pericolosa partita che si “gioca” tra inseguitore e inseguito, e dall’altra quella della partita a scacchi, in cui alle mosse del vampiro corrispondono gli errori della vittima. Non si tratta di vampiri in stile Nosferatu o Dracula, bensì dell’idea di vampiro-umano, quello che non sembra tale, ma che è rappresentato come una figura articolata del desiderio e che come tale si dissimula nelle pieghe della quotidianità. Quella di A Fool There Was è una donna-vampiro, una donna (volutamente) senza nome, ma anche senza né passato né futuro (che agisce solo in un presente necrofilo che è sempre tale), che possiede un potere destabilizzante e letale nei confronti della fragilità maschile.